Quanto è affilata la lama di Hiroki, il samurai senza paura di Trek to Yomi? Ve lo raccontiamo nella nostra recensione del gioco di Devolver Digital.
Grazie agli sforzi combinati dello sviluppatore Leonard Menchiari e Flying Wild Hog Rzeszów, quello che un tempo era uno script di 2000 parole si è trasformato nel viaggio di un samurai impavido ma ferito nell’animo, in un vero e proprio omaggio giocabile al cinema giapponese degli anni ’50 e ’60. Nella nostra anteprima di Trek to Yomi avevamo già esposto i meriti della direzione artistica ma al contempo ci eravamo detti curiosi di testare la piacevolezza e la profondità del gameplay lungo l’intera vicenda di Hiroki, che adesso abbiamo vissuto nella sua interezza. Dopo aver battagliato contro innumerevoli nemici in un misto tra ardore e disciplina siamo finalmente pronti a rinfoderare la katana nel saya e a dirvi cosa ne pensiamo di questa esperienza tra il mondo dei vivi e l’aldilà.
L’insostenibile peso di una promessa
Trek to Yomi si apre con un ricordo doloroso, di quando Hiroki – marito di Aiko e reggente del villaggio – era solo un giovane allievo di Sanjuro, maestro affezionato e padre della sua amata. Chiamato in fretta e furia per affrontare una situazione inattesa, il sensei gli aveva ordinato di restare al dojo con Aiko ma i due non hanno voluto saperne e sono corsi in suo aiuto. Mentre attraversava il villaggio, il giovane ha visto le risate che animavano le strade lasciar spazio a pianti strazianti, fiamme e morte, abbattutasi sulla tranquilla comunità per volere di uno spietato signore della guerra. Dopo aver mietuto le sue prime vite con la katana, è giunto al cospetto del perfido Kagerou e ha avuto salva la vita solo grazie all’intervento di Sanjuro.

Dopo aver posto fine alla vita del nemico, il sensei ha chiesto all’allievo di tenere al sicuro Aiko e il suo popolo e poi è spirato. Tornato con la mente agli affari del presente, al completamento di un capitolo introduttivo che ben espone i rudimenti del combat system, un Hiroki ormai adulto discute con Aiko della sofferenza inflitta agli abitanti di terre vicine da un gruppo di furfanti e, intenzionato a tener fede alla promessa fatta al maestro anni prima, decide di partire per sedare la minaccia prima che possa bussare alle porte del suo villaggio. Così ha inizio la perigliosa missione del samurai, destinato a incontrare un fantasma del passato e a seguirne le orme, fino ai più oscuri luoghi della terra dei morti.
Questo conflitto vivido e reale ma anche interiore al tempo stesso – perché intimamente legato ai doveri dell’Hiroki uomo e guerriero – è stato inscenato con sapienza da Menchiari e gli sviluppatori, che di certo hanno dimostrato di voler costruire le vicende con una viva passione per il cinema giapponese di metà ‘900. Insomma, sebbene i suoi risvolti si siano rivelati piuttosto prevedibili, la trama di Trek to Yomi è assolutamente calzante col tipo d’esperienza ludica e stilistica, così come lo sono le sue tematiche. Pur non spiccando per originalità, i personaggi hanno beneficiato dell’eccellente doppiaggio in giapponese, firmato da interpreti d’eccezione come Akio Otsuka.
Senza volervi assolutamente rovinare le sorprese, sappiate che l’avventura potrà concludersi in modi differenti – a seconda della scelta compiuta in uno specifico punto del viaggio – e per questo motivo è un peccato che non sia stata inserita la possibilità di sbloccare la selezione dei capitoli alla fine della prima run. Per completare il cammino di Hiroki con le dovute attenzioni, inclusa la ricerca di collezionabili e potenziamenti, occorrono circa 7 ore ma la realtà è che Trek to Yomi non ha i numeri per spingere i giocatori a rivivere in toto le gesta del guerriero.
Poco fa abbiamo menzionato i classici manufatti da raccogliere, che ci siamo molto divertiti a cercare in ciascuno dei capitoli e non a caso. Sorvolando su quelli legati al passato del protagonista – al centro di un tentativo di narrazione ambientale non proprio riuscito – abbiamo trovato decisamente interessanti gli altri, perché intimamente connessi al folklore e alla mitologia giapponese.
Di esplorazione ed enigmi
Mentre si avventura in scenari paludosi e spettrali – dove il vento sospinge le acque verso un cielo irreale – o in insediamenti messi a ferro e a fuoco dalla ferocia di uomini spietati, il samurai può imbattersi non solo in munizioni da raccogliere ma anche in potenziamenti per la salute o l’energia e perfino in nuove combinazioni d’attacco. L’utilizzo di telecamere fisse e dinamiche ma in ambienti mai davvero estesi, infatti, non deve ingannare: in Trek to Yomi i segreti abbondano e non di rado la progressione sul “binario” delle due dimensioni lascia spazio anche alla terza. Hiroki in sostanza può scovare sentieri secondari, entrare in casupole poco in vista e spingersi in anfratti oscuri, così da scoprire segreti sul mondo di gioco e diventare un guerriero sempre più letale.


Non mancano tra l’altro i salvataggi di persone indifese e tutta una serie di piccole imprese che, una volta portate a termine, gli permettono di imparare delle ulteriori mosse offensive o difensive. Tutte queste trovate hanno di certo contribuito a mantenere alto il nostro livello d’attenzione ma al contempo hanno messo in luce qualche scelta meno felice. La conformazione dei livelli per esempio non aiuta a comprendere quali siano i percorsi principali e quali i secondari, con questi ultimi che non di rado si scambiano per i primi e viceversa. Queste sviste comportano il rischio di perdere alcuni oggetti, sia perché a volte degli eventi scriptati bloccano il passaggio da cui si è venuti, sia perché – se si incappa in uno degli altari adibiti al salvataggio della partita – nemmeno la ricarica del checkpoint riesce a risolvere il problema.
A tal proposito, la terra dei morti ha dato agli sviluppatori la chance di inserire dei semplici puzzle ambientali, spesso connessi all’inserimento in una ruota di specifici simboli da cercare con lo sguardo all’interno degli scenari. In generale, nessuno degli enigmi proposti ambisce davvero a mettere in difficoltà il combattente ma se non altro riesce a dargli un attimo di respiro prima che questi si lanci nell’ennesimo scontro con gli spiriti dei samurai e gli orridi afflitti che popolano lo Yomi.
Un mietitore di uomini e demoni
Giungiamo quindi a parlare dei combattimenti, che vedono il guerriero avvalersi dei reali strumenti di morte usati da coloro che hanno solcato i paesaggi del Giappone antico. Dal Bo-shuriken, all’Ozutsu – un cannone a mano usato nel sedicesimo secolo – le armi di Hiroki sono assolutamente in linea con la fedeltà storica voluta da Menchari e si sono rivelate utili a sfoltire i gruppi di nemici più numerosi. La loro efficacia in battaglia è inversamente proporzionale alla praticità d’utilizzo, con il cannoncino che ad esempio infligge ingenti danni ma a fronte di tempi di ricarica più lunghi. È chiaro in ogni caso che la vera star della festa sia la katana, che si trova al centro di un combat system non eccessivamente profondo ma non per questo poco gradevole.
Fondate sulla gestione di una barra d’energia che, se azzerata, provoca un temporaneo stato di stanchezza in cui Hiroki è particolarmente vulnerabile all’offensiva nemica, le danze con la spada chiamano il giocatore a eseguire con precisione le combo, premendo i tasti in accordo con l’effettiva esecuzione delle mosse a schermo e non tutti d’un fiato. A volte alcuni duelli sono caratterizzati da una certa staticità di fondo ma in compenso il protagonista strappa gli avversari alla vita con la grazia di un vero samurai e delle movenze credibili, ben lontane quindi dalle esagerazioni hollywoodiane.
Gli attacchi leggeri, pesanti, la schivata e il sistema di parry, costituiscono le basi di una lista mosse che va ad ampliarsi sempre più, fino a includere fendenti legati ai tasti direzionali e soprattutto le combo stordenti. Queste ultime sono di gran lunga le più efficaci di tutte, perché una volta andate a segno permettono a Hiroki di eseguire delle finisher spettacolari, all’insegna delle mutilazioni e degli immancabili fiotti di sangue.
Quando pone fine all’esistenza di un furfante in questo modo, il protagonista recupera una dose parziale di salute ed è qui che si palesano le inevitabili conseguenze di questa scelta. Le combo stordenti infatti finiscono per rendere sostanzialmente obsolete le altre mosse, che abbattono i nemici senza portare alle finisher e quindi al conseguente recupero di salute.
Questo inconveniente diventa ancor più evidente alla difficoltà difficile (Ronin) ma va ad annullarsi col livello di sfida ottenibile alla conclusione della prima run (Kensei), che fa entrare in vigore la legge del one hit, one kill. I semplici sgherri, gli spadaccini e gli spiriti che il protettore del villaggio incontra sul suo cammino possono dargli del filo da torcere, talvolta perché più coriacei del normale e in altre occasioni per delle specifiche abilità combattive. Tra gli utilizzatori di Naginata e gli abitanti dello Yomi, a volte ammantati di un’aura protettiva e in grado, per dirne una, di evocare dei letali sottoposti, gli sviluppatori hanno concepito una buona varietà di avversari, inclusi dei boss piacevoli da affrontare e non sempre facili da sconfiggere.
Il Giappone in bianco e nero
Spesso e volentieri le ambientazioni e la veste grafica sono, al massimo, il mirabile sfondo di una serie di eventi narrati ma nel caso di Trek to Yomi è vero l’opposto: la direzione artistica, lo stile delle inquadrature e le scelte stilistiche tutte, sono probabilmente il cuore pulsante di un’esperienza che sprizza amore per la cultura giapponese e per una storica era della Settima Arte.

Grazie al sapiente uso delle telecamere fisse e dinamiche, che sanno sia indugiare sul personaggio, sia mostrare – tramite la profondità di campo – il connubio tra la violenza perpetrata dagli uomini e l’immutabile bellezza dell’elemento naturale, esplorare gli scenari dai cromatismi vintage del titolo di Flying Wild Hog è una vera gioia per gli occhi e le orecchie.
Forti del supporto di storici e del materiale raccolto al museo Edo di Tokyo, gli addetti ai lavori ci hanno regalato scorci di vita vera nei villaggi, alte torri illuminate da un plenilunio spettrale e luoghi disseminati di cumuli di teschi, in un incontro tra mito e realtà caratterizzato da una grande potenza evocativa ed elegantissimi contrasti tra luce e ombra. Per questi motivi, più volte ci è capitato di arrestare la corsa di Hiroki per darci alla contemplazione e imprimere nella mente i luoghi che stavamo visitando.


Di questo mondo in bianco e nero impreziosito da un piacevole effetto grana non vogliamo dirvi altro, perché è giusto che siate voi a scoprirlo. Se parliamo di mero dettaglio grafico ed espressività dei personaggi, la lama di Trek to Yomi non è altrettanto affilata ma d’altra parte parliamo di una piccola produzione e non ha senso far pesare più di tanto queste imperfezioni. In compenso, durante il viaggio che su PlayStation 5 abbiamo vissuto in 4K a 60 frame al secondo, ci sono state persino alcune scene fondate sull’uso massiccio di effetti particellari, che ci sono piaciute più del previsto. Sorvolando sull’utilizzo tutt’altro che incisivo delle feature di DualSense, di cui sono stati comunque sfruttati i grilletti adattivi in specifici frangenti, non possiamo che spendere parole d’elogio nei confronti dell’accompagnamento sonoro, che oltre a essere a cura di una compositrice con antenati samurai – come è emerso nel corso della nostra intervista al creatore di Trek to Yomi – è stato realizzato in nome della fedeltà storica, a beneficio di sonorità in grado di seguire con puntualità il susseguirsi degli eventi e dare un tocco ancor più distintivo all’avventura.
Trek To YomiVersione Analizzata PlayStation 5Piacevole da giocare e assolutamente bello da vedere, Trek to Yomi è un perfetto omaggio a un pezzo di storia del cinema e alla cultura giapponese. Legato tanto al mondo dei vivi quanto alla terra dei morti, il viaggio del protagonista non offre risvolti narrativi particolarmente sorprendenti ma nonostante questo si lascia seguire e fa da sfondo a un’esperienza ludica e audiovisiva all’insegna della fedeltà storica. Ricca di scorci mozzafiato e campi lunghi capaci di valorizzare una componente esplorativa non esente da imperfezioni e la bellezza di scenari molto evocativi, l’avventura di Leonard Menchiari ha saputo intrigarci col suo combat system che, pur poggiando su scelte non sempre a fuoco, ci ha fatto sentire dei veri samurai. Gli appassionati delle opere di Kurosawa, così come coloro che cercano un titolo ricco di stile ma dai ritmi più compassati, farebbero bene a indossare il kimono e a partire con Hiroki.