The Legend of Zelda Tears of the Kingdom Recensione: oltre ogni aspettativa

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The Legend of Zelda Tears of the Kingdom Recensione: oltre ogni aspettativa
the legend of zelda tears of the kingdom recensione: oltre

Il sequel di Zelda Breath of the Wild è uno dei giochi di avventura più belli che siano mai stati realizzati: un immenso inno alla creatività.

The Legend of Zelda Tears of the Kingdom
Recensione: Nintendo Switch

Il ricordo di una certa immagine non è che il rimpianto di un certo istante.
Marcel Proust – Alla ricerca del tempo perduto

Breath of the Wild era saturo di momenti che, per i viandanti in cammino lungo le pianure di Hyrule, si sono tramutati in ricordi. Quel pensiero per molti è sfumato in malinconia, figlia della consapevolezza che difficilmente sarebbe giunta a breve un’avventura di tale respiro lirico, selvaggio. Link in planata con la paravela, l’orizzonte al tramonto dalle colline di Calbarico, il castello in lontananza pervaso da un’aura maligna, la flebile voce di Zelda che ci invoca: tutti istanti che, in sei anni, si sono fatti memoria. Tears of the Kindgom è il ricordo di quelle immagini che smette di essere rimpianto.

Il tempo

Cronofagia è un termine di recente coniazione. Il merito va attribuito al filosofo francese Jean-Paul Galibert che in un saggio del 2015 (e semplifico di molto il concetto) accusava l’ipercapitalismo di essere un divoratore di tempo.

È una parola che trovo di grande fascinazione, e mi è balenata spesso in mente durante le interminabili peregrinazioni a Hyrule. The Legend of Zelda Tears of The Kingdom è un titano cronofago, spogliato però dell’accezione negativa e capitalista teorizzata da Galibert. È tempo fagocitato, risucchiato in una voragine inarrestabile di scoperta, sempre affamato di nuovi minuti da impiegare. Ma è tempo ben consumato, anche nei suoi frangenti più lenti, meno densi, più contemplativi. Persino quando dovrete raccogliere tronchi d’albero per ricostruire un villaggio, o quando bisognerà sperimentare col cibo per ottenere le ricette giuste, oppure quando sarà necessario viaggiare da un capo all’altro della mappa per recuperare un ingrediente indispensabile al completamento di una mini sfida. Tutto, in Tears of the Kingdom, è tempo. È un leitmotiv costante, che ritorna imperterrito in ogni singola colonna portante dell’opera di Hidemaro Fujibayashi, sia essa narrativa o ludica. Non c’è un rigido metronomo a scandire il ritmo dell’avventura, se non la nostra libertà, con rare eccezioni.

Esistono segreti in Tears of The Kingdom che possono essere svelati ben prima delle fasi finali. Esistono missioni che possono essere saltate a piè pari perché già completate incidentalmente nel corso di un curioso vagabondare. C’è da rimanere avviluppati in questo gorgo multistrato, crocevia di epica gargantuesca e poesia delle piccole cose.

C’è da indugiare nel tentativo di decifrare un linguaggio antico inciso su steli di pietra; c’è da rallentare dinanzi alla vista di un segnale di fumo in lontananza o di una sospetta mongolfiera dai vispi cromatismi; c’è da fermarsi sul ciglio di un precipizio celeste, ammirando la vertigine della distanza, e riflettendo sul modo di raggiungere una misteriosa colonna che sembra stagliarsi al di là delle nuvole. In Tears of the Kingdom bisogna perdersi. E a volte, per inevitabili ridondanze, per imprevisti fallimenti, per ataviche incertezze della formula ludica, magari perderemo anche la pazienza. Ma il tempo no, quello lo useremo: nella Hyrule martoriata da un miasma corrosivo, è infatti la più importante arma che ci è stata donata.

La favola bella

Tears of the Kingdom può essere considerato una sorta di “Gigantomachia” zeldiana. Impelagarsi nel racconto della storia potrebbe rivelarsi finanche più pericoloso delle minacce che affronteremo nelle vesti di Link, ecco perché non valicherò questa soglia. Quel che conta è che, come già poc’anzi anticipato, è di nuovo il tempo a fungere da matrice primaria di Tears of the Kingdom.

La favola è sempre la stessa, nella sua dicotomia tra bene e male, ed è bella, forse come mai prima d’ora (il nostro speciale su Zelda e le origini del male è qui per voi). Resta ancorata a regole e canoni tipificati, a una mitologia che semina nuove fondazioni ma che reitera i suoi tasselli più noti, non senza qualche faticosa sovrabbondanza, e con una struttura mutuata di peso da quella di Breath of the Wild. Questo è purtroppo il suo limite più rigido. Le storie dei quattro popoli da incontrare convergono verso i ricordi da far riemergere, e la ricerca della principessa è di nuovo il fulcro attorno a cui ruota il cammino dell’eroe (eccovi il nostro speciale sulla cronologia di The Legend of Zelda). A essere diversa, in confronto al precedente atto, è per fortuna l’intensità del racconto. È più epico, più dolce. Storie principali e missioni secondarie si intersecano in un lavoro di scrittura volutamente semplice sul piano concettuale, eppure cristallino, corale, con singhiozzi di poesia che con molta difficoltà si sradicheranno dalla memoria. La Hyrule di Tears of the Kingdom è un teatro nella cui perfetta scenografia s’annidano tantissimi misteri, piccoli o grandi che siano.

Alcuni sono ben celati, nelle profondità più remote della terra, mentre altri talmente in bella vista che possono essere ammirati dalla sommità delle nuvole, come quei giganteschi geoglifi che ricordano palesemente le linee di Nazca, con una soluzione al contempo artistica e narrativa che estasia. Chissà quali o quanti misteri riuscirete a risolvere. Certo è che quando la verità ultima si paleserà dinanzi ai vostri occhi, e il mito squarcerà il velo che l’avvolge, quando comprenderete il segreto delle lacrime che danno il titolo al gioco, forse ne verserete una anche voi.

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Hyrule: uno e trino

Se prima ho citato gli abissi della terra, non è stato per caso, né per nutrire la recensione di retorica. E non mi riferivo alle grotte che di tanto in tanto puntellano i costoni rocciosi, o formano un passaggio segreto tra due colli, sarcofaghi naturali di tesori, minerali e mostri.

La Hyrule di Breath of the Wild è la base su cui è stata concepita una mappa ora tripartita, che dalle altezze del cielo si estende fino alle profondità del sottosuolo. Come la Triforza, anche il mondo di Zelda è adesso diviso in tre parti, tutte comunicanti tra di loro. Tramite i baratri dai quali si propaga il rossore malsano della corruzione si può giungere sottoterra, in una porzione speculare a quella della superficie, dove la luce non riesce a penetrare. Tutto è buio come l’averno, e di tanto in tanto qualche segnale d’orientamento può essere colto dal magma che filtra dalle rocce, che col suo bagliore indica sì un pericolo mortale, ma anche un punto di riferimento.

Esplorare il sottosuolo è un viaggio molto più complesso di quello richiesto per passeggiare nel Bosco del Tempo, o per volare tra le isole fluttuanti: si procede a tentoni, con un senso di ansia crescente, alla ricerca del più impercettibile singhiozzo di luce, mentre ci si districa tra fiumi di miasma e bestie contaminate. Si può ovviamente illuminare questo mondo sommerso (e anche con soluzioni meno ortodosse), il cui scandaglio è una sfida spaventosa, stimolante sulle prime e un po’ frustrante a lungo andare.

La “colpa”, se così vogliamo definirla, è anche di una direzione artistica meno abbacinante di quella che compone le altre due porzioni della mappa. Fa comunque parte del gioco sentirsi così soffocati da una pesantezza claustrofobica, in netta contrapposizione con la limpida ariosità del panorama celeste, dove tutto è visibile a occhio nudo. È una tripartizione che sembra quasi seguire uno schema religioso: dal Paradiso in cielo, irraggiato dal sole, fino alle oscure caverne dell’Inferno, pennellate dal fuoco, con Hyrule nel mezzo che pare un Purgatorio dalla bellezza fintamente rassicurante, ancora insozzato dal male.

Se la vastità di Breath of the Wild vi ha tolto il fiato, Tears of the Kingdom vi prosciugherà i polmoni. Le isole fluttuanti diffondono meravigliosi echi artistici di Skyward Sword, e fermarsi in ogni approdo, come un viandante delle nuvole, sarà un’ulteriore prova da superare. Molto più di quanto avveniva nel capitolo che l’ha preceduto, quest’esperienza è quindi un indefesso inno al viaggio, con gli sforzi inevitabili che richiede e con le inestimabili ricompense che elargisce.

I poteri sono in mano a Link

Un’esplorazione avventurosa e coraggiosa sarà opportunamente premiata con rupie, tesori, risorse e attrezzatura per rimettersi in cammino, forti di una rinnovata spavalderia. Non bastano però abiti dai tratti peculiari e ingredienti da mescolare, per far incetta di piatti salvavita. Non nelle terre di Hyrule, dove l’ombra nera scende e la luna rossa s’alza in cielo.

Le armi più importanti Link le ha letteralmente a portata di mano: i poteri infusi nel suo braccio destro sostituiscono quelli di Breath of the Wild, e se già in precedenza le combinazioni delle abilità concedevano alla fantasia di galoppare senza freni, in Tears of the Kingdom le potenzialità si fanno esponenzialmente più ampie, quasi incommensurabili. Se prima la creatività aveva la forza travolgente di un cavallo in corsa, adesso possiede quella di una mandria. Ultramano è il talento più versatile di tutti, e quello che verrà usato con maggior frequenza dagli avventurieri. Permette di afferrare i numerosi elementi interattivi sparsi lungo l’ambientazione, dai tronchi alle tavole di legno, passando per oggetti di differente natura e tipologia. Con un apposito tocco è possibile collegarli tra di loro, dando forma ora a zattere improvvisate, ora a carri da guerra, ora a mongolfiere un po’ instabili, ora a piccoli aeroplani con cui trafiggere le nubi. Probabilmente il solo limite è l’immaginazione. In tutta onestà, è difficile valutare in maniera concreta e quantificabile fin dove ci si può spingere. I congegni Zonau, le cui origini affondano nel mito, arricchiscono la gamma di variabili e, in tango con le leggi della fisica di Hyrule, ci offrono un dono immenso: la libertà. Non se ne può abusare, comunque.

Una questione di numeriAl momento della stesura di questa recensione, la console segnava quota cento ore. 70 di queste sono state divorate soltanto per il completamento della main quest, intervallata da qualche secondaria d’intermezzo, numerosi Sacrari risolti, tante mini sfide terminate e legittimi momenti di vagabondaggio senza meta. Nonostante tutto, sono convinto ci sia ancora molto che Tears of The Kingdom nasconde tra le sue rovine in superficie, in un anfratto sotterraneo, all’ombra di un alberello dalle foglie dorate che puntella il cielo. Sembra quasi superfluo sottolineare quanto questo episodio sia un prodigio audiovisivo, e quanto rappresenti un miracolo tecnico su Nintendo Switch, merito anche di una direzione artistica che maschera sapientemente alcuni artefatti (che si manifestano, com’è ovvio, soprattutto se giocato in modalità TV). No, i 30 fps non sono sempre stabili, e durante la mia esperienza, al teletrasporto nei pressi di un villaggio particolarmente affollato, i rallentamenti si sono palesati a più riprese. Eppure, considerando l’insieme, è un problema su cui si può soprassedere. Hyrule è così tanto vasta e appariscente che qualche calo di frame merita di scivolarci addosso. Anche perché, se vi tuffate dal picco più alto delle isole celesti e mirate al baratro nella superficie, potete raggiungere il sottosuolo in picchiata, senza soluzione di continuità. Ed è incredibile.

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Il nuovo Zelda ci chiede in pegno tanto tempo, ma ce ne concede poco, almeno all’inizio, per sfruttare i suoi mezzi. L’utilizzo degli strumenti Zonau dipende da un indicatore di batteria che, come la salute e la stamina, va ampliato con il trascorrere delle ore e l’ottenimento dei giusti materiali. Ecco perché ogni spostamento, in cielo e nel sottosuolo, ha bisogno di essere prima adeguatamente valutato e ponderato. È importante esserne consapevoli: in Tears of the Kingdom si deve costruire, e tanto. L’esplorazione completa del mondo di gioco è infatti assoggettata alle esigenze della creazione. Non è un’opzione: è una necessità. Il potere che velocizza la composizione dei vari accrocchi, lo Schematrix, si ottiene nelle fasi più avanzate, ed è anche limitato dal numero di risorse che avremo a disposizione nella borsa di Link. È un automatismo solo parzialmente pensato per farci risparmiare tempo, e anzi sottrae un po’ di appagamento al processo di ideazione. Come Ultramano, anche Compositor si fonda sul “collegamento”: consente di fondere armi e scudi con altre lame, con gadget dalle caratteristiche diversificate, con rocce, fiori e persino funghi. La sua funzione è duplice: da una parte muta l’efficacia dei singoli strumenti, con combinazioni che massimizzano la potenza d’attacco o la carica elementale, mentre dall’altra ripara le spade, le mazze o le lance in procinto di frantumarsi. Compositor sopperisce così almeno in parte a uno dei più stigmatizzati difetti di Breath of the Wild, e dà alle armi una nuova vita, un nuovo tempo. Benché le combinazioni siano molteplici, gli effetti ottenibili si dimostrano più utili che imprevedibili, a differenza di quanto può avvenire, ad esempio, con Ultramano.

E poi c’è Ascensus, l’abilità che più di tutte mette in mostra i prodigi compiuti da Nintendo nella conformazione dell’ambiente. Sul piano concettuale è un talento di facile applicazione: tramite questo potere, Link può oltrepassare in verticale qualsiasi superficie solida posta sopra di lui, a patto che non sia situata troppo in alto. L’utilità in combattimento è secondaria, e Ascensus mostra la sua funzionalità nel corso dell’esplorazione, dandoci modo di minimizzare i tempi degli spostamenti e persino aggirare interi enigmi.

Più di ogni altra cosa, però, Ascensus è lo strumento con cui lo studio di sviluppo sale in cattedra e tiene ai giocatori una lectio magistralis a tema level design. Sulle prime, l’impressione è che simile abilità ci sproni a soggiogare il mondo secondo la nostra volontà. Con l’avanzare dell’avventura qualcosa comincia a cambiare, e una nuova consapevolezza emerge poco a poco.

Analizzando con meticolosa attenzione l’ambiente ci si rende conto di come le distanze, le altezze, le sporgenze, le piccole insenature o le impercettibili pendenze più o meno accentuate sul fianco di un monte siano accuratamente posizionate per permetterci di beneficiarne. Magari non è così, ma dopo un centinaio di ore trascorse nel regno e miriadi di soluzioni tentate, ho avuto la percezione che i momenti in cui ho creduto di ingannare il gioco in realtà fossero stati previsti in qualche misura, tanto sembra ben studiato il design di questa vecchia, nuova Hyrule. Nella cornice di un mondo aperto di tale vastità e ricchezza, simile sensazione, vera o illusoria che sia, è impagabile.

I ricordi degli oggetti

Nel novero delle doti di Link c’è ancora un potere di cui parlare, Reverto. Quello che reputo il più affascinante di tutti, e anche quello dalle implicazioni meno immediate, quantomeno se si decide di andar oltre le sue funzioni base. Azionandolo, Link può riavvolgere il tempo relativo di un oggetto, sia esso una roccia precipitata dal cielo, la ruota di un mulino o una piattaforma.

Tutto intorno continua a scorrere, e solo quello specifico elemento selezionato ripercorre i propri spostamenti, finché non torna al punto di partenza o il giocatore non decide di interromperne il moto. Di primo acchito, questa abilità serve a risolvere qualche semplice enigma ambientale. In realtà, come prevedibile, c’è molto di più. Con una eleganza e una dolcezza squisitamente nipponiche, nel gioco Reverto viene definito il potere in grado di farci rivivere “i ricordi degli oggetti” e, se ben applicato in combattimento, può dar vita a situazioni ad alto tasso di spettacolarità, magari allungando la vita di alcuni aggeggi Zonau prossimi alla distruzione, o rispedendo al mittente un colpo mortale. Con un buon uso di Reverto e Compositor, le battaglie si fanno più tattiche e coinvolgenti, in combo con ulteriori abilità che Link otterrà nel corso dell’avventura, e che non credo valga la pena anticipare.

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D’altronde, pur senza rivelare troppo, il concetto resta lo stesso: le fondamenta ludiche del combattimento di Tears of the Kingdom sono le medesime già saggiate in Breath of the Wild, con le loro difficoltà e gli sporadici problemi nella gestione degli scontri multipli, ma conoscono un accrescimento delle potenzialità offensive. L’arma più potente non è la Spada Suprema, bensì il guizzo dell’intuizione. Fatene buon uso: d’altronde, l’energia della fantasia non si esaurisce, e non è schiava delle leggi del tempo.

Il passato e il presente

Familiare, ma diversa. La Hyrule di Tears of the Kingdom è uno scrigno di memorie che aspetta di essere aperto da chi ha già vissuto Breath of the Wild. I ricordi – si sa – sono ingannevoli, e questo regno non è più lo stesso di prima. Non solo la mappa ora si struttura su tre livelli, due dei quali totalmente inediti, ma anche la superficie primaria, ereditata dalla precedente esperienza, ha subito la metamorfosi prodotta dal susseguirsi degli anni.

I viali, le pianure, i declivi, le montagne, i laghi, i fiumi, i villaggi mantengono ovviamente loro ben note coordinate e l’impatto è caldo, accogliente. Ci si sente a casa, sin da subito. Il regno non è tuttavia totalmente uguale a com’era, lì dove il miasma ha corroso le terre. Tears of the Kingdom è una insolita altalena tra il senso di déjà vu e di jamais vu. Un’oscillazione gradevolissima tra il riconoscimento di luoghi, volti e situazioni familiari e la percezione che persino ciò che è stato palesemente riciclato sia in fondo, a suo modo, nuovo. Il presente si mescola al passato: i tre strati della mappa, le rinnovate abilità di Link e la presenza di mostri mai incontrati prima si ibridano con tutto quello che abbiamo conosciuto e amato in Breath of the Wild.

La formula ludica presta il fianco alla reiterazione, c’è da ammetterlo. Occorre ad esempio attivare pur sempre le torri topografiche e superare le insidie enigmistiche dei Sacrari, tutti ideati ex novo e chiaramente basati sui poteri posseduti in Tears of The Kingdom. Ci sono rompicapi molto elementari che si alternano ad altri assai più elaborati, con uno slancio di complessità e varietà inesauribile che si manifesta soprattutto nei macro puzzle (con forti vibrazioni da dungeon vecchia scuola) proposti dalle quest principali.

Se si escludono i Sacrari, la maggior parte degli enigmi in Tears of the Kingdom possiede plurime soluzioni, spesso connesse alla perspicacia dei giocatori. Ecco allora che l’intera Hyrule si tramuta nel palcoscenico di un’avventura unica. Se la meta finale è la medesima per tutti, il viaggio sarà il resoconto di un diario personale. Tempi di esplorazione, ordine delle scoperte, approcci adottati: ancor di più che in Breath of the Wild, qui ciascun viaggiatore avrà il suo percorso, la sua storia. E ce le racconteremo, queste avventure individuali, ci scambieremo opinioni e fatti, vicissitudini e dicerie di un mondo spaventosamente interconnesso. È tutto collegato in Tears of the Kingdom: un pezzo di carta rinvenuto in un minuscolo isolotto nel cielo rimanda a un tesoro giù nelle profondità del suolo, e le tre porzioni di mappa comunicano tra di loro con una coerenza da lasciar interdetti. Addirittura la disposizione di materiali da costruzione disseminati per tutta Hyrule trova una simpatica giustificazione narrativa. E così come gli abitanti di villaggi distanti intrecciano le loro storie, così noi giocatori faremo lo stesso, per narrare di volta in volta, ad altri avventurieri, di un Tears of The Kingdom visto attraverso nuovi occhi.

The Legend of Zelda Tears of the Kingdom
The Legend of Zelda Tears of the KingdomVersione Analizzata Nintendo SwitchUno dei migliori giochi di avventura che siano mai stati realizzati. Un titano ludico e artistico, che ingurgita le ore in un sol boccone, in un banchetto luculliano di possibilità, creatività, fantasia. The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom non può avere l’impatto dirompente che ebbe Breath of the Wild perché cresce dalle sue radici, data la natura di sequel diretto. Dona però nuovi frutti. Possiede – ed è una grande conquista – il coraggio di mettere in atto un altro tipo di rivoluzione, ingrandendo, rifinendo e nobilitando ogni virtù del predecessore. Il retaggio della prima epopea di Link su Nintendo Switch si avverte comunque, sia nel bene che nel male. Con l’eredità di un passato glorioso, Tears of the Kingdom erige un presente magnifico, e spalanca gli orizzonti per il futuro della serie. Ha il potere infatti di rimanere collegato alla memoria. Come un ricordo. Oltre il tempo.